Categoria: Pillole di diritto

Affrontiamo, con doverose sintesi e chiarezza, un tema rilevantissimo per l’interesse aziendale, illustrando, in via pratica, le norme fondamentali sulla base delle quali vengono decisi i giudizi di merito che riguardano questa frequentissima problematica.
La regola generale, dettata dal codice civile, prevede che la cosa venduta debba essere immune da vizi che la rendano inidonea all’uso cui è destinata (cosiddetto “difetto strutturale”) o ne diminuiscano, in modo apprezzabile, il valore (art.1490 c.c.).
In caso il bene o il materiale acquistati presentino un difetto, l’acquirente ha facoltà di chiedere la risoluzione del contratto oppure una riduzione del prezzo, ovviamente proporzionale al difetto medesimo: in caso di risoluzione, l’acquirente stesso dovrà restituire il bene o il materiale che si trovino nella sua disponibilità, ed il venditore dovrà restituireall’acquirente, l’importo ricevuto a titolo di prezzo.
La garanzia per vizi, sopra tratteggiata, ha la durata di un anno dalla consegna del bene o del materiale e, allo scopo di far validamente valere il proprio diritto, l’acquirente deve denunciare il difetto entro 8 giorni dalla scoperta.
In generale, il termine legale sopra indicato decorre:
– per i vizi facilmente riconoscibili, dal giorno della consegna;
– per i vizi occulti, dal giorno della loro effettiva scoperta (che andrà adeguatamente provata).
Nel caso di “vizio apparente” o facilmente riconoscibile, tuttavia, la garanzia non è dovuta se la merce è stata ricevuta senza sollevare alcuna contestazione nell’immediatezza della consegna.
La norma che pone a carico del compratore l’onere di denunciare i vizi entro otto giorni dalla loro scoperta, presuppone, infatti, che i vizi stessi non siano facilmente riconoscibili al momento della conclusione del contratto o della consegna, se successiva alla conclusione, dovendo i beni essere trasportati a destinazione (art. 1511 c.c.); quando, invece, si tratti di vizi apparenti e, come tali, oggettivamente riconoscibili con l’uso della normale diligenza, risulta, quindi, di rilevanza decisiva sollevare la contestazione nel momento in cui si presume che, il compratore, sia stato in grado di esaminare diligentemente la merce.
La denuncia deve essere scritta, ma non è necessario che sia assolutamente analitica, potendo essere anche sommaria purché idonea a comunicare, senza dubbio, l’esistenza di una difformità/non conformità, i cui tratti specifici potranno essere dettagliati in seguito; la denuncia medesima può provenire dal compratore o da un suo rappresentante, a patto che disponga del relativo e formale incarico ed il venditore ne sia a piena conoscenza.

Le clausole vessatorie nei contratti tra aziende

Si è portati a pensare che, le clausole vessatorie, ossia quelle previsioni contrattuali che comportano un oggettivo e grave squilibrio tra i diritti e le prerogative delle parti, riguardino solo la sfera dei consumatori, ma non è affatto così: vediamo, in estrema sintesi ed in via pratica, come tale problematica legale riguardi anche le aziende ed i contratti aziendali.
Il codice civile, all’art. 1341, fornisce un elenco tassativo di tali clausole, ma la giurisprudenza ne ammette un’interpretazione estensiva.
Sono senza dubbio vessatorie la totalità delle previsioni, non infrequenti, che mirano a limitare, in tutto o in parte ed anche con particolari artifici terminologici, la responsabilità di un contraente in caso di suo inadempimento, e radicalmente vietate, anche se approvate specificamente, sono quelle di esonero dalla responsabilità per colpa grave o dolo.
Allo stesso modo e sempre per rimanere nell’ambito della maggiore casistica, sono vessatorie le clausole, tutte, che avvantaggiano una parte, concedendogli un diritto che, la legge in primis, non le attribuisce: è il caso della libera recedibilità dal contratto o della facoltà di sospensione dell’esecuzione dello stesso, per una delle parti.
Frequenti anche le previsioni, parimenti vessatorie, che hanno l’obiettivo di far decadere, una parte, dal diritto di sollevare eccezioni, contestazioni o lamentele formali, e le connesse garanzie per i vizi, nel caso le relative denunce non siano poste in essere con determinate forme ed in tempi eccessivamente brevi.
Assai frequenti sono anche le norme contrattuali che comportano proroghe o rinnovazioni tacite degli obblighi e degli accordi, a più riprese riconosciute vessatorie dalla giurisprudenza.
Ma cosa occorre sapere, in concreto, circa la validità di queste clausole?
In sostanza, perchè questo genere di previsioni “gravose” si possano ritenere vincolanti, occorre che siano necessariamente oggetto di una specifica approvazione, separata e distinta dall’approvazione e sottoscrizione del resto del testo e contenuto contrattuale, e tale circostanza deve apparire chiara ed indubbia; di converso, infatti, le clausole sopra descritte, non potranno ritenersi validamente poste ed approvate, in caso di unica sottoscrizione del contratto, anche qualora, le stesse, fossero evidenziate nel testo (con diverso carattere od in grassetto, ad esempio) o, peggio, ove vi fosse sì un richiamo distinto alle medesime, ma che comprendesse praticamente la totalità delle clausole contrattuali, dando luogo ad una sottoscrizione dell’accordo che non potrebbe salvaguardare, in alcun modo, il diritto della parte di comprendere, a fondo, la reale portata di quelle condizioni che sono particolarmente penalizzanti.
Le clausole vessatorie non specificamente approvate, nelle modalità appena  chiarite, sono nulle ed inefficaci e, nel caso fosse evidente che rappresentano una parte fondamentale dell’accordo, senza la quale, le parti, non si sarebbero determinate a concluderlo, nullità ed inefficacia si estenderanno all’intero contratto.

Il recesso dal contratto

Uno dei più grossi equivoci che possono verificarsi, con riguardo alle vicende di un contratto, è quello di ritenere possibile il recesso unilaterale dal contratto stesso, qualora si verifichi una problematica od una disfunzione del corretto meccanismo dell’accordo.
Non è affatto così e vediamo, come sempre in estrema sintesi, il perché.
Il codice civile (art.1372) afferma chiaramente che il contratto ha forza di legge tra le parti; ciò vuol dire, in primo luogo, che il contratto può essere sciolto per mutuo consenso, ossia con uno specifico atto che ne sancisca il venir meno, per intervenuto accordo tra le parti stesse; in secondo luogo, tale assunto sta a significare che, il recesso unilaterale, ossia il diritto di liberarsi unilateralmente degli obblighi contrattuali, è possibile solo laddove specificamente previsto dalla legge o da apposito patto, a sua volta contenuto nel contratto stesso.
Queste sono le uniche evenienze nelle quali è lecito parlare di recesso.
Molto di frequente, il diritto di recesso riconosciuto, nel contratto stesso, a favore di una parte, prevede un corrispettivo, a carico della parte medesima, spesso rappresentato da una somma di danaro: tale importo può essere consegnato sin dalla stipulazione del contratto (caparra penitenziale) o riconosciuto, dalla parte recedente, all’atto del recesso stesso (multa penitenziale).
Un ultimo rapido accenno ad alcuni casi di recesso legaleossia specificamente previsto dalla legge, cui sopra si accennava: nei contratti a tempo indeterminato, ciascuna parte può liberamente recedere (comodato, conto corrente), stessa facoltà nell’appalto ed a favore del committente, in favore del cliente, con riguardo all’incarico conferito ad un professionista o nel caso, frequentissimo, della tutela del consumatore che acquisti un bene o servizio on line e che ne risulti, poi, pentito (diritto di ripensamento, entro 14 giorni).

L’ascensore condominiale

L’ascensore, installato e presente sin dall’origine a servizio dello stabile, è a tutti gli effetti un bene comune condominiale e ne sono comproprietari tutti i condomini, compresi coloro che sono posti al piano terra o sono titolari di negozi; gli unici soggetti che non possono ritenersi comproprietari dell’impianto elevatore, sono quelli la cui unità immobiliare, per oggettive ragioni strutturali, non può in alcun modo essere collegata all’utilizzo dell’ascensore, con la conseguenza che, l’utilizzo medesimo, per tali soggetti risulta in definitiva impossibile.

In assenza di disposizioni particolari del regolamento di condominio, le spese per l’uso ed il mantenimento dell’ascensore (energia elettrica, sostituzione funi, ingrassaggi, etc..) e per la manutenzione ordinaria (controlli periodici previsti per legge), sono ripartite tra i condomini in base all’usosecondo il dettato dell’art.1124 c.c ed ossia, nello specifico, nella misura del 50% sulla base dei millesimi di ciascuno ed il restante 50% in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano. La Cassazione ha più volte chiarito che, di regola, da tali esborsi vanno esonerati i condomini del piano terreno, i proprietari dei negozi e quelli dei soli box interrati che non sono raggiunti dall’elevatore; sono comunque valide, non trattandosi di norma perentoria, diverse discipline delle spese ordinarie (e per il normale uso) eventualmente individuate dai condomini e fatte oggetto di apposita convenzione scritta.

Il discorso è differente per le spese di manutenzione straordinaria dell’impianto (sostituzione cabina, motore, strutture portanti, etc..) che vanno sostenute da tutti i condomini su base millesimale, a prescindere dalle possibilità d’uso ed in virtù della definizione legale dell’ascensore, di cui si diceva in principio, quale bene comune a tutti gli effetti.

In conclusione ed in ragione della rilevanza pratica, all’interno della vita condominiale, dell’impianto ascensore, si segnala come, la Cassazione, abbia riconosciuto come illegittimo il divieto di trasporto di mobili e materiali edilizi a mezzo degli impianti condominiali, ancorché di piccole dimensioni, a patto che, il condomino utilizzatore, non ne provochi il danneggiamento, ne curi la pulizia e non ne precluda totalmente l’utilizzo agli altri comproprietari.

L’annullamento del contratto

Frequenti sono i quesiti circa le possibilità, che le parti hanno, di ipotizzare l’annullamento del contratto concluso: poiché è molta la confusione a tale riguardo ed è bene precisare i confini, abbastanza ristretti, di una tale eventualità, in via, come sempre, assai sintetica e chiara, cerchiamo di evidenziare i concetti fondamentali di tale importante argomento.
In presenza di determinati vizi, specificamente previsti ed indicati dalla legge, il contratto concluso tra le parti può essere annullato, sempre e solo a mezzo di una pronuncia giudiziale, ossia una sentenza, appunto, di annullamento, fino alla quale, è bene precisare, il contratto stesso continua a produrre i suoi effetti.
Le cause generali di annullabilità del contratto previste dal codice civile sono l’incapacità legale o naturale di uno dei soggetti ed i cosiddetti vizi della volontà, ossia l’errore, la violenza ed il dolo.
Un soggetto si trova in stato d’incapacità legale ove sia minore d’età, interdetto, inabilitato o sottoposto ad amministrazione di sostegno o, viceversa, d’incapacità naturale, ove si trovi, concretamente ed al di là della qualificazioni legali di cui sopra, in stato d’incapacità d’intendere e/o volere (menomazione, dovuta alle più svariate ragioni, della propria sfera intellettiva e della volontà).
Il contratto concluso dall’incapace, può essere impugnato ai fini dell’annullamento, dal rappresentante legale dell’incapace stesso (ossia, colui che ne cura gli interessi, non essendone in grado il soggetto) o dall’incapace medesimo.
L’errore è, invece, l’ignoranza o la falsa rappresentazione, da parte di uno dei contraenti, di elementi contrattuali rilevanti ai fini della conclusione del contratto: condizioni per invocare l’annullamento del contratto, in questo caso, sono la rilevanza dell’errore (deve ricadere su elementi essenziali dell’accordo, quali la natura, l’oggetto e tale da determinare la parte a concludere) e la riconoscibilità dell’errore (è necessario che, la controparte, fosse nelle condizioni di accorgersi dell’errore).
Abbiamo violenza, rilevante a fini di annullamento del contratto, quando un contraente o un terzo, mediante una minaccia ingiusta esercitata sull’altro contraente, lo induce a concludere un contratto che, diversamente, non avrebbe voluto: la parte che ha subito la violenza (che dev’essere esplicita, seria ed attuale), può invocare l’annullamento del contratto così concluso.
Ove, infine, si rilevi venuto ad esistenza ogni tipo di inganno, raggiro, artificio, menzogna, falsa rappresentazione di uno scenario di fatto, a mezzo dell’opera consapevole e volontaria di un soggetto, allo scopo di indurre, uno dei contraenti, a concludere il contratto, si concretizza la fattispecie del dolo: la parte contraente, vittima del dolo, può agire in giudizio ed invocare l’annullamento del contratto, a condizione che, il dolo stesso, sia stato determinante ai fini della conclusione del contratto che, senza di esso, non sarebbe stato perfezionato.
E’ importante rammentare che, l’indispensabile azione giudiziale di annullamento, si prescrive in cinque anni, che decorrono, in caso di incapacità legale, dal momento in cui cessa lo stato giuridico che la provoca (interdizione, minore età..), in caso d’incapacità naturale, dal momento della conclusione del contratto ed, in ultimo, in caso di vizio del consenso, dal giorno cui cessa la violenza o sono stati scoperti l’errore o il dolo, come sopra descritti.
L’effetto dell’eventuale sentenza di annullamento è retroattivo, ossia, oltre a determinare l’estinzione del contratto, ne elimina gli effetti dal momento della conclusione, comportando, così ed in linea generale, il ripristino della situazione di fatto e diritto preesistente al contratto medesimo venuto meno.
Importante segnalare, in chiusura, che, i soggetti terzi che, in buona fede, hanno acquisito un diritto in virtù del contratto, poi annullato, sono tutelati dalla legge, salvo il caso che, l’annullamento, dipenda da incapacità legale (interdizione, minore età, amministrazione di sostegno..), circostanza nella quale, l’annullamento medesimo, travolge anche i diritti dei terzi di buona fede.

I pagamenti nelle transazioni commerciali

Un tema di assoluto interesse, per qualsiasi impresa ma, anche, per ogni professionista, è senza dubbio quello dei pagamenti nell’ambito degli affari e transazioni commerciali.
Proprio in ragione di tale rilevanza, la normativa, tanto comunitaria quanto nazionale, si è occupata di specificamente disciplinare la materia.
Osserviamo, con la consueta sintesi, i punti fondanti di tale regolamentazione.
Si definisce “transazione commerciale”, qualsiasi contratto stipulato tra imprenditori (compresi i professionisti) o tra imprenditori e pubbliche amministrazioni, che abbia ad oggetto, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la fornitura/prestazione di servizi, appalti e/o esecuzione di opere.
Il periodo di pagamento non può superare i termini indicati dal d.lgs 231/02 (art.4), individuati, dalla norma, in un massimo di 30 giorni dal ricevimento della fattura o nota proforma ed, ove sia incerta tale data, dal ricevimento della merce o della prestazione del servizio: è molto importante, quindi, che vi sia sempre evidenza documentale di tali avvenimenti/adempimenti; termini convenzionali, ossia pattuiti tra le parti, possono superare i 30 giorni di cui sopra, fino ad un massimo di 60, che possono essere superati solo sulla base di una clausola scritta specifica, approvata dalle parti e non “gravemente iniqua” per il creditore (il termine non può essere palesemente eccessivo e non può esservi alcuna rinuncia agli interessi di mora e/o ai danni patiti per il ritardo).
Un termine di pagamento superiore ai 60 giorni non è mai ammissibile a danno di un lavoratore autonomo o di una PMI (art. 7 comma 4 bis d.lgs 231/02).
Gli interessi moratori decorrono senza la necessità di preventiva costituzione in mora, a partire dallo spirare del termine pattuito (o, diversamente, legalmente previsto): le parti possono concordare interessi di mora più alti di quelli legali, il cui tasso è indicato, per le transazioni commerciali, con comunicazione semestrale del Mef che specifica la parte variabile degli stessi, che va a sommarsi ad una parte fissa individuata nella misura dell’8% (dal 2012, precedentemente si attestava al 7%).
Il primo rimedio giudiziale, a fronte del perdurare di un mancato pagamento, è senza dubbio il ricorso per decreto ingiuntivo, che mira ad ottenere un provvedimento, anche in caso di debitore estero, che imponga l’adempimento in tempi brevi, trascorsi i quali ed in mancanza di opposizione giudiziale fondata, si potrà ipotizzare di procedere con i possibili pignoramenti, mobiliari e/o immobiliari, a danno dei debitori inadempienti.
Il diritto di famiglia, banale dirlo, è materia del tutto complessa e delicata, motivo per cui, l’obiettivo che si deve porre un professionista in una sede quale questa, è quello di fornire indicazioni certamente fondamentali, ma di carattere inevitabilmente generale e sintetico.
L’obbligo della cura e del mantenimento dei figli, è previsto dalla Costituzione (art.30) e viene ad esistenza, per i genitori (anche non coniugati), per il solo fatto di averli generati: essi dovranno, in via pratica, mantenere i propri figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo le loro specifiche e concrete capacità di lavoro (art.148 c.c.)
Lo scenario descritto non muta, ovviamente, in caso di separazione della coppia, anche non unita in matrimonio, venendo a verificarsi delle situazioni che, in caso di presenza di prole minore affetta da patologia importante, o maggiorenne parimenti malata e non autosufficiente, occorre siano disciplinate con estrema cura, tanto in sede di separazione consensuale quanto contenziosa.
Il cosiddetto assegno di mantenimento, assolve ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma che si estendono, ovviamente, all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo e, naturalmente, sanitario.
A riguardo di quest’ultimo tema, è necessario fissare alcuni punti di notevole rilevanza.
L’obbligazione del contributo al mantenimento, viene posta a carico del genitore non convivente con la prole minore (o maggiorenne non autosufficiente) e, nell’importo dell’assegno, da corrispondersi all’altro genitore, devono intendersi ricomprese le spese ordinarie, relative al sostentamento-mantenimento, all’educazione e all’istruzione dei figli.
Le spese medico-sanitarie rappresentano un settore particolare ed, a tale riguardo, occorre sottolineare la decisiva importanza che hanno assunto, negli ultimi anni, i protocolli elaborati dai vari Tribunali del Paese, che si occupano di identificare e disciplinare, allo scopo di prevenire le maggiori conflittualità, l’insieme delle spese straordinarie, nelle quali, appunto, rientrano molto spesso le sopra citate spese sanitarie.
In generale, sono definite straordinarie le spese mediche non prevedibili e non consuetudinarie, mentre saranno intese quale ordinarie quelle relative alle visite di controllo, di routine o connesse ad abituali trattamenti terapeutici. La differenza non è di poco conto, poiché, il regime delle spese straordinarie, al pari di quelle non mutuabili, può prevedere una suddivisione dell’onere economico a carico dei genitori, nella misura del 50% ciascuno ma, anche, imporre la necessità di un preventivo accordo tra i genitori stessi, in ordine allo specifico esborso in questione, accordo che, come facile immaginare, potrà risultare maggiormente complesso in proporzione alla delicatezza della pratica medica e del suo eventuale costo.
A titolo di esempio si può citare il caso degli interventi chirurgici, considerati sempre di carattere straordinario e, da porsi in essere, solo previo accordo tra i genitori, a meno di manifesta urgenza, caso in cui, la grande maggioranza delle linee guida giudiziali, esclude la necessità dell’accordo preventivo.
L’universo delle spese per i farmaci può rivelarsi non meno complesso, con alcuni Tribunali che individuano alcune tipologie quali straordinarie che non necessitano, però, di accordi (farmaci prescritti dal pediatra, Trib. Monza) ed altri che, invece, richiedono un accordo con riguardo ad ogni farmaco prescritto da specialista (Trib. Firenze).
Alla luce di queste indicazioni fondamentali, appare evidente come possano rivelarsi sommamente complesse e delicate la strutturazione e gestione di un regime di separazione di genitori, rammentiamo, anche non coniugati, nel caso si debba affrontare una situazione di ricovero di un minore, o maggiorenne non autosufficiente o gravato da handicap, per patologia grave o che, comunque, comporti lunghi periodi di ospedalizzazione o riabilitazione.
Non sfugge a criteri assai più complessi, di quelli che concorrono alla disciplina di una separazione senza le problematiche di cui sopra, anche la sfera della normazione e gestione del diritto di frequentazione del minore malato, da parte del genitore non convivente o, addirittura, non affidatario: è del tutto evidente che sarà imprescindibile impegnarsi, soprattutto a livello legale, per individuare un’adeguata modalità che salvaguardi due aspetti d’importanza centrale e tutelati dalle norme e dalla giurisprudenza unanime, ossia il diritto a vivere appieno la propria esperienza ed il proprio ruolo di genitore, da un lato, attraverso un rapporto con il minore adeguato e, dall’altro ed ancor più importante, il diritto del piccolo malato di avere, accanto a sé e più del “normale”, entrambi i propri genitori, seppur separati.

Uno dei contratti più importanti e di frequente utilizzo, per le aziende, è senza dubbio quello di trasporto. Prendiamo in esame, come di consueto in sintesi, gli elementi fondamentali di tale fattispecie e le accortezze, minime, che occorre osservare, facendo specifico riferimento al trasporto su strada.
Le parti contrattuali sono, di regola, il vettore (impresa individuale o persona giuridica iscritta all’albo nazionale autotrasportatori), il mittente (colui che stipula il contratto con il vettore) ed il destinatario (il soggetto che riceve le merci, che può essere il mittente stesso). I trasporti su strada, dal punto di vista normativo, sono regolati dal codice civile (artt.1683-1702 c.c.) ed, in particolare, dal d.lgs 286/05.
Il contratto di trasporto, di norma, dev’essere stipulato in forma scritta ed avere data certa, ossia “marcato” con firma digitale o inviato a mezzo pec e, per essere pienamente valido, deve contenere almeno i seguenti elementi:
– generalità di vettore e committente e dell’eventuale caricatore della merce (ossia colui che consegna la merce al vettore, curando la sistemazione sul veicolo);
– numero d’iscrizione del vettore all’albo nazionale;
– tipologia e quantità della merce;
– corrispettivo del servizio di trasporto e modalità di pagamento;
– luoghi di presa in consegna merce e riconsegna della stessa;
– tempistica massima per carico e scarico della merce trasportata.
Un’attenzione importante che deve avere il mittente è senza dubbio quella di verificare che, il vettore prescelto, sia effettivamente iscritto all’albo nazionale e rispetti gli adempimenti retributivi nei confronti degli addetti ed assicurativi di legge, pena la responsabilità in solido, del mittente col vettore, nel termine di un anno dalla cessazione del contratto, con riguardo alle rivendicazioni dei lavoratori, limitatamente alle prestazioni ricevute in occasione del contratto stesso ed ai premi assicurativi pretesi dagli organi amministrativi.
Il termine per il pagamento del dovuto, al vettore, non può eccedere i 60 giorni, dall’emissione della fattura per il servizio di trasporto effettuato.
Un accenno ai documenti di trasporto indispensabili, che sono la lettera di vettura, che accompagna la merce ed è prova del contratto ed il documento di trasporto (ddt), che certifica il trasferimento di merci dal mittente-venditore al destinatario-acquirente e che dev’essere previsto in duplice copia, una conservata dal soggetto che l’ha emesso (mittente-venditore) e l’altra da consegnarsi al destinatario-acquirente; il ddt non è necessario nei casi di fatturazione immediata, poiché, in tale eventualità, sarà la fattura stessa ad accompagnare la merce.
Nella normalità dei casi, il mittente dovrà consegnare il carico al vettore, avendo cura di porre a disposizione eventuale documentazione speciale, relativa alla specifica merce oggetto di trasporto (certificati di origine merce, permessi particolari): il mittente sarà, infatti, l’unico responsabile per i danni o sanzioni derivanti dalla mancanza, o inesattezza, di tali documenti.
Il vettore, da parte sua, presa in consegna la merce, deve assicurarne la custodia sino alla consegna ed è suo onere il rispetto di tutte le norme inerenti il materiale trasporto (codice della strada, massa trasportabile, sicurezza, limiti di carico, sagoma, etc..), come, parimenti, sarà una sua obbligazione la fase di carico e stivaggio (salvo la presenza del caricatore, di cui sopra); all’arrivo della merce a destinazione, il vettore deve conservarla e custodirla sino all’effettiva consegna al destinatario ed, inoltre, avrà la responsabilità, salvo diversa pattuizione, delle operazioni di scarico e di eventuali danni, subiti dalla merce, in tale circostanza: solo la consegna effettiva della merce, senza danneggiamenti o perdite, libera da responsabilità il vettore, non essendo sufficiente, a tal fine, la sola sottoscrizione del documento di trasporto da parte del destinatario.
Si rammenta che gli autotrasportatori di merci, per conto terzi, hanno l’obbligo di legge di dotarsi di assicurazione per i danni alle cose da trasportare e, senza tale polizza, non è ammessa alcuna iscrizione all’albo nazionale.
Un ultimo accenno al trasporto su strada internazionale, per sottolineare come, tale contratto, sia disciplinato dalla cosiddetta CMR (Convenzione di Ginevra del 1956) che si applica ogniqualvolta che, il luogo di carico e quello di scarico, indicati in contratto, siano in Stati differenti e che, almeno uno di questi, aderisca alla convenzione: in mancanza, le parti sono libere di scegliere la legge che regoli il trasporto o, diversamente, sarà applicata quella di residenza o sede del vettore.

Adibire un lavoratore a mansioni inferiori (demansionamento) è pratica generalmente vietata, in quanto lesiva della professionalità acquisita dal lavoratore medesimo, fatte salve alcune eccezioni, circoscritte da legge e giurisprudenza, che si possono individuare nei casi di rilevante modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere, in modo sostanziale, sulla posizione del lavoratore e nelle ipotesi previste dai contratti collettivi.
Il datore di lavoro potrà, in queste eventualità, destinare il dipendente a mansioni appartenenti ad un livello d’inquadramento immediatamente inferiore nella classificazione ed articolazione contrattuale, senza, però, mutare la categoria legale: ciò vuol dire che, un impiegato, potrà vedersi assegnare mansioni riconducibili al quarto livello, pur avendo una qualifica da terzo (e potendo, quindi, svolgere mansioni da terzo), ma non potrà uscire dalla categoria impiegatizia.
La modifica delle mansioni dev’essere comunicata, al lavoratore, sempre ed inderogabilmente in forma scritta, a pena di nullità.
E’ molto importante sapere che, il lavoratore, ha diritto di conservare tanto il livello d’inquadramento (anche se sono mutate le mansioni) quanto il trattamento economico, riconosciutogli prima dell’assegnazione a compiti inferiori, con l’eccezione di particolari elementi della retribuzione specificamente collegati alle mansioni superiori precedentemente poste in essere (esempio, indennità di cassa, di trasferta).
Il demansionamento, addirittura con la modifica della categoria legale nella quale è inserito il lavoratore (operaio, impiegato, quadro), è possibile anche a seguito di accordo tra le parti, a patto che questo avvenga in ragione della superiore necessità di conservazione del posto di lavoro (diversamente non ottenibile), dell’acquisizione di una diversa professionalità o dell’ottenimento di un oggettivo miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore.
Il relativo accordo dev’essere sempre siglato in sede protetta (sede giudiziale, commissioni di conciliazione dell’ispettorato del lavoro o in sede sindacale) dove le parti si potranno fare assistere da avvocati o rappresentanti di fiducia.
In caso di violazione della disciplina sopra sintetizzata, il lavoratore potrà proporre ricorso al Giudice del lavoro, per vedere riconosciuto l’illecito demansionamento, il giusto trattamento retributivo ed, eventualmente e qualora provato, il risarcimento del danno, anche non patrimoniale (ossia biologico): occorre porre attenzione ai termini di prescrizione dei relativi diritti, individuati, dalla Cassazione, in 5 anni per il trattamento retributivo ed in 10 anni per il diritto al riconoscimento della corretta qualifica.
Il licenziamento per giusta causa, o in tronco, che dir si voglia, è un provvedimento sempre legato ad una specifica condotta del lavoratore e mai a differenti ragioni riferibili, in ipotesi, all’attività produttiva dell’azienda o all’organizzazione del lavoro.
La condotta dev’essere talmente grave da determinare la lesione, irreversibile, del vincolo fiduciario che fonda il rapporto lavorativo, e contrattuale, tra datore e dipendente ed i fatti che causano detta lesione sono tali da conferire, sempre al datore, la facoltà di recedere dal contratto senza il preavviso che, diversamente, la legge impone di concedere al lavoratore, secondo vari criteri legati all’anzianità del lavoratore medesimo ed indicati nei contratti collettivi.
Il licenziamento dev’essere sempre intimato per iscritto e posto in essere secondo una precisa ed inderogabile procedura descritta dalla legge generale (Statuto dei lavoratori), pena la sua inefficacia.
La giusta causa posta a fondamento di un tale provvedimento, può sostanziarsi anche in un comportamento extra-aziendale, che presenti quei requisiti di gravità tali per cui, parimenti, il datore di lavoro risulta legittimato a ritenere, ed affermare, il venir meno dell’affidamento e della possibilità, anche provvisoria, della prosecuzione del rapporto d’impiego.
Può risultare utile fornire qualche pratico esempio della fattispecie sopra tratteggiata e rammentare che, si verifica una giusta causa di licenziamento in tronco, in caso di atteggiamenti ed espressioni irriguardose/offensive o minacciose nei confronti del datore di lavoro o di colleghi, in caso di abbandono del posto di lavoro senza giustificato motivo, da cui derivi un pregiudizio (od un rischio) per l’azienda o i colleghi, di assenze ingiustificate dal posto di lavoro, in caso di rifiuto alla ripresa del lavoro al termine di una malattia o di falsificazione di documentazione medica, in caso di commissione di reati di una certa rilevanza (esempi tipici sono il furto, falsa testimonianza, violenza sessuale, spaccio di stupefacenti), ma anche in caso di diffamazione o divulgazione di notizie dannose e non veritiere, sul conto di colleghi o datore di lavoro, poste in essere di persona, via mail o social network.
Si tratta, come facile intuire, di situazioni molto serie e connotate da gravità manifesta, per cui è consigliabile, per il datore da un lato, di soppesare assai attentamente la sussistenza del sottolineato requisito della gravità, prima di determinarsi ad assumere la decisione di porre in essere un licenziamento in tronco e, per il lavoratore dall’altro, di verificare attentamente sia la possibilità di avanzare una difesa credibile, a fronte delle accuse ricevute, sia l’avvenuto rispetto, da parte dell’azienda, della procedura inderogabile di legge imposta per la legittimità del licenziamento per giusta causa.
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