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Il demansionamento: quando si può parlare di squalifica professionale.

Adibire un lavoratore a mansioni inferiori (demansionamento) è pratica generalmente vietata, in quanto lesiva della professionalità acquisita dal lavoratore medesimo, fatte salve alcune eccezioni, circoscritte da legge e giurisprudenza, che si possono individuare nei casi di rilevante modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere, in modo sostanziale, sulla posizione del lavoratore e nelle ipotesi previste dai contratti collettivi.
Il datore di lavoro potrà, in queste eventualità, destinare il dipendente a mansioni appartenenti ad un livello d’inquadramento immediatamente inferiore nella classificazione ed articolazione contrattuale, senza, però, mutare la categoria legale: ciò vuol dire che, un impiegato, potrà vedersi assegnare mansioni riconducibili al quarto livello, pur avendo una qualifica da terzo (e potendo, quindi, svolgere mansioni da terzo), ma non potrà uscire dalla categoria impiegatizia.
La modifica delle mansioni dev’essere comunicata, al lavoratore, sempre ed inderogabilmente in forma scritta, a pena di nullità.
E’ molto importante sapere che, il lavoratore, ha diritto di conservare tanto il livello d’inquadramento (anche se sono mutate le mansioni) quanto il trattamento economico, riconosciutogli prima dell’assegnazione a compiti inferiori, con l’eccezione di particolari elementi della retribuzione specificamente collegati alle mansioni superiori precedentemente poste in essere (esempio, indennità di cassa, di trasferta).
Il demansionamento, addirittura con la modifica della categoria legale nella quale è inserito il lavoratore (operaio, impiegato, quadro), è possibile anche a seguito di accordo tra le parti, a patto che questo avvenga in ragione della superiore necessità di conservazione del posto di lavoro (diversamente non ottenibile), dell’acquisizione di una diversa professionalità o dell’ottenimento di un oggettivo miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore.
Il relativo accordo dev’essere sempre siglato in sede protetta (sede giudiziale, commissioni di conciliazione dell’ispettorato del lavoro o in sede sindacale) dove le parti si potranno fare assistere da avvocati o rappresentanti di fiducia.
In caso di violazione della disciplina sopra sintetizzata, il lavoratore potrà proporre ricorso al Giudice del lavoro, per vedere riconosciuto l’illecito demansionamento, il giusto trattamento retributivo ed, eventualmente e qualora provato, il risarcimento del danno, anche non patrimoniale (ossia biologico): occorre porre attenzione ai termini di prescrizione dei relativi diritti, individuati, dalla Cassazione, in 5 anni per il trattamento retributivo ed in 10 anni per il diritto al riconoscimento della corretta qualifica.